STUDIO TRIBUTARIO CAVALERI
DOCUMENTI
IL CREDITO D'IMPOSTA PER IL MEZZOGIORNO
La Legge di stabilità 2016 riconosce un credito d’imposta alle imprese che effettuano investimenti in beni strumentali nuovi facenti parte di un progetto di investimento iniziale. Tale credito spetta per gli investimenti effettuati a decorrere dal 1° gennaio 2016 e fino al 31 dicembre 2019. Possono beneficiare dell’agevolazione anche le imprese che intraprendono l’attività successivamente alla data di entrata in vigore della legge istitutiva del credito.
Accesso domiciliare: le
violazioni comportano la
nullità dell’atto impositivo
È nullo l’accertamento derivante dai dati
rinvenuti in sede di accesso domiciliare, quando la relativa autorizzazione è viziata. Si tratta di una nullità derivata da prove illegittimamente acquisite. Tale orientamento, affermato da tempo dalla Suprema Corte, è sempre più confermato anche dai giudici di merito, i quali sono tenuti a verificare la legittimità delle prove a sostegno della pretesa, alla luce del contenuto dell’autorizzazione rilasciata dal Pubblico Ministero. In tal senso si è ultimamente espressa anche la CTR Emilia Romagna con sentenza n. 1417/2016, che offre lo spunto per alcune riflessioni in proposito.
L’accesso domiciliare consiste in un intervento specifico da parte dell’Amministrazione finanziaria presso l’abitazione del contribuente o di un parente o dei soci della società, volto all’acquisizione di materiale istruttorio.
E’ evidente che tale controllo sia caratterizzato da una natura piuttosto invasiva: per tale motivo è, infatti, prevista l’autorizzazione del PM, la quale, però, necessita di alcuni specifici requisiti per la sua validità.
Analisi della norma
L’art. 52, comma 2, D.P.R. n. 633/1972 prevede che l'accesso presso l’abitazione del contribuente può essere eseguito, previa autorizzazione del procuratore della Repubblica, soltanto in caso di gravi indizi di violazioni delle norme tributarie, allo scopo di reperire libri, registri, documenti, scritture ed altre prove delle violazioni.
Di conseguenza, il pubblico ministero, nel concedere l’autorizzazione all’accesso domiciliare, dovrà effettuare una valutazione sulla sussistenza di gravi indizi del verificarsi dell’illecito fiscale.
In altre parole, quindi, la Guardia di Finanza e l’Agenzia delle Entrate per richiedere l’autorizzazione ad accedere presso l’abitazione del contribuente devono indicare nella relativa richiesta quali sono i “gravi indizi” della commissione di una possibile violazione tributaria, in assenza dei quali il “permesso” non dovrebbe essere rilasciato.
In proposito va segnalato che per l’accesso presso la sede dell’impresa che non sia anche abitazione, è sufficiente l’autorizzazione rilasciata dal Capo dell’Ufficio da cui dipendono i verificatori.
Diversamente, invece, nell’ipotesi in cui si tratti di locali promiscui, come la sede presso l’abitazione o attigua, occorre un’autorizzazione della Procura, che si tratta in realtà di un semplice nulla osta non essendo necessari i gradi indizi di evasione.
Orientamento della giurisprudenza
L’orientamento della Corte di Cassazione sembra essere unanime sul punto.
I giudici di legittimità hanno più volte affermato che l’autorizzazione del procuratore della Repubblica all’accesso domiciliare si configura come un provvedimento di carattere amministrativo, che va ad inserirsi nella fase preliminare del procedimento di formazione dell'atto impositivo. Ne consegue quindi che la sua legittimità influisce direttamente sulla legittimità dell’avviso di accertamento emesso.
A tal proposito, poiché la norma consente l’accesso domiciliare solo in presenza di “gravi indizi” riferibili a violazioni delle norme in materia di IVA ed imposte sui redditi, occorre valutare l’idoneità degli elementi offerti dall’ufficio tributario ad integrare tali gravi indizi. Il giudice tributario, quindi, se il contribuente nella propria impugnazione ha rilevato la possibile violazione della norma, ha il compito di verificare innanzitutto l’esistenza dell’autorizzazione del PM e, in secondo luogo, quali sono stati gli indizi indicati (Cass. n. 17957/2012; Cass. n. 6836/2009; Cass. n. 16424/2002; Cass. n. 18017/2012).
Qualora tali requisiti non sussistano, il giudice è tenuto a riscontrare i presupposti della pretesa, ossia se è fondata esclusivamente su quanto rinvenuto in sede di accesso ovvero anche su altri elementi. Ne consegue che la nullità può riguardare solo i rilievi dell’accertamento fondati sulle prove illegittimamente acquisite.
In altre parole, nell’ipotesi in cui un atto impositivo non è fondato solo su elementi rinvenuti presso l’abitazione, la nullità della pretesa sarà solo parziale.
Tale orientamento è ormai condiviso anche da numerosi giudici di merito. Tra le ultime pronunce si segnala la CTR Emilia Romagna n. 1417/2016. Nella specie una società chiedeva l’annullamento di un avviso di accertamento per maggiori imposte IRES, IVA e IRAP, eccependo l’illegittimità dell’autorizzazione rilasciata dal procuratore della Repubblica all’accesso presso l’abitazione della madre del rappresentante legale della società stessa, per carenza di motivazione sulla presenza dei gravi indizi di violazioni tributarie.
La CTR ha ritenuto l’accesso illegittimamente autorizzato poiché svolto in dipendenza di una richiesta e di un’autorizzazione, prive di precisi e puntuali riferimenti a fatti integranti gravi indizi, ciò comportando la nullità di tutti gli atti conseguenti al primo sulla base del rapporto di causalità. Di conseguenza, l’Ufficio non avrebbe potuto utilizzare, ai fini probatori, i documenti illegittimamente acquisiti a fondamento dell’avviso di accertamento emesso.
Difesa del contribuente
Affinchè il giudice tributario possa valutare la legittimità delle prove poste a base dell’accertamento, occorre che nel ricorso introduttivo il contribuente lamenti eventuali violazioni anche riferite all’accesso domiciliare.
Innanzitutto, occorre avere prova dell’esistenza dell’autorizzazione e, una volta visionata, occorre verificare la regolarità della stessa e quali sono stati i “gravi indizi” sul presupposto dei quali è stata rilasciata.
L’accesso domiciliare è legittimo solo se l’autorizzazione è riferita all’indirizzo presso il quale i verificatori accedono: la Suprema Corte ha chiarito, in proposito, che l’accesso presso l’abitazione va effettuato all’indirizzo esatto riportato sull’autorizzazione, non potendosi estendere ad un più generale concetto di residenza (Cass. n. 4498/2013).
Non di rado, poi, occorre rilevare che la richiesta è proposta su moduli prestampati e precompilati con la conseguenza che i “gravi indizi” di evasione potrebbero essere stati completamente omessi ovvero indicati in misura generica.
Nel ricorso, il contribuente dovrà pertanto rilevare l’eccessiva astrattezza di tali elementi ovvero dimostrare come gli stessi fossero estranei alla realtà dell’interessato.
Infine, occorrerà riscontrare l’illegittimità della pretesa per la parte di essa fondata solo sulle prove acquisite presso l’abitazione.
Tale circostanza diviene particolarmente importante dinanzi ad accertamenti complessi, ossia fondati sia su elementi rinvenuti in sede di accesso sia su altri fattori (presunzioni semplici, dati contabili, ecc). Solo, infatti, ciò che deriva dall’accesso privo di regolare autorizzazione potrà essere annullato.
FONTE: IPSOA EDITORE

ATTENZIONE ALLA
COMPILAZIONE DELLA
FATTURA.
LA FATTURA GENERICA
NON E' SUFFICIENTE PER DEDURRE I COSTI
Il documento deve contenere le informazioni necessarie per l’effettuazione dei controlli da parte del Fisco e consentire l’esatta identificazione dell’oggetto della prestazione
L’Amministrazione finanziaria ha ragione a contestare l’effettività delle operazioni contenute in fatture irregolari, ritenendo impossibile dedurre i costi. La fattura, infatti, deve essere redatta in modo da costituire un documento “idoneo a rappresentare i costi dell’impresa”.
Così la Corte di cassazione, nella sentenza 9846 del 13 maggio 2016.
I dati del processo
La sentenza origina da due avvisi di accertamentonotificati a una società, con i quali venivano ripresi a tassazione alcuni costi sostenuti per delle provvigioni, in ragione di una generica formulazione delle fatture stesse, che pregiudicavano l’esercizio di verifica del Fisco, non consentendo l’individuazione, da parte degli agenti, delle prestazioni rese.
In entrambi i giudizi di merito, la società è risultata soccombente, evidenziando il giudice di appello, in adesione alle difese erariali, la genericità dell’indicazione delle fatture e sottolineando che la contribuente non ha neanche esibito gli estratti conto.
Nel prosieguo, la società lamenta violazione degli articoli 19 e 21 del Dpr 633/1972 (decreto Iva) e 109 del Dpr 917/1986 (Testo unico imposte sui redditi), laddove la Ctr ha ritenuto che la mancata individuazione in fattura della natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi oggetto dell’operazione impedisca di accertare l’inerenza del costo ai ricavi dell’impresa e che le fatture costituiscono gli unici documenti utili a tale scopo.
La decisione
Ma neppure nel grado di legittimità le ragioni della ricorrente trovano soddisfazione.
Secondo la sezione tributaria, infatti, in tema di distribuzione dell’onere della prova (articolo 2697 del codice civile), qualora l’Agenzia delle Entrate sollevi questioni sulla deducibilità dei costi indicati, la fattura resta comunque un documento “idoneo a rappresentare i costi dell’impresa”.
Certo, evidenziano i giudici, essa deve essere “redatta in conformità ai requisiti di forma e contenuto” ed è una conseguenza evidente che “l’irregolarità della fattura fa venir meno la presunzione della verità di quanto in essa rappresentato e la rende inidonea a costituire titolo per il contribuente ai fini del diritto alla deduzione del costo relativo”.
L’Amministrazione finanziaria, dunque, ben può contestare l’effettività di operazioni indicate in fatture irregolari, ritenendo i costi indeducibili.
Occorre, infatti, considerare che il sistema dell’Iva, armonizzato in forza della disposizioni comunitarie (a partire dalla sesta direttiva 388/77/Cee), è retto dai due principi fondamentali di neutralità dell’imposta (che ne riversa il carico sul consumatore finale non imprenditore) e di detraibilità di quanto pagato dall’imprenditore per l’acquisto dei beni necessari per l’attività svolta, principio funzionale - esso stesso - al meccanismo della neutralità (cfr Cassazione, pronunce 3454/2014 e 8628/2015; Corte giustizia C-285/11 del 2012 e C-271/12 del 2013).
Peraltro, la norma per cui la fattura deve contenere, tra le altre, le indicazioni della natura, qualità e quantità dei beni e dei servizi formanti oggetto dell’operazione (articolo 21 del Dpr 633/1972), risponde a oggettive finalità di trasparenza e di conoscibilità, essendo funzionali a consentire l’espletamento delle attività di controllo e verifica da parte dell’Amministrazione finanziaria e, segnatamente, a consentire l’esatta e precisa identificazione dell’oggetto della prestazione.
Va da sé, dunque, che un’indicazione generica dell’operazione fatturata non soddisfa le finalità conoscitive che la norma intende assicurare, sicché è legittima l’irrogazione della relativa sanzione (Cassazione, sentenza 21980/2015).
Conclusioni
In ultima analisi, premesso che ai sensi dell’articolo 1749, comma 2, del codice civile, l’estratto conto indica gli elementi essenziali in base ai quali è stato effettuato il calcolo delle provvigioni, la Cassazione considera indenne da censure l’operato del secondo giudice, atteso che:
-
a fronte del requisito di forma scritta previsto ad probationem del contratto di agenzia dall’articolo 1742 cc, il tentativo della società di ricavare la prova delle provvigioni e delle relative percentuali da altri documenti, si scontra con l’inammissibilità, nella specie, della prova presuntiva (Cassazione, 5165/2015)
-
la rilevanza assegnata dal giudice d’appello alla mancanza degli estratti conto – trattandosi di un documento contabile che, riportando il lavoro svolto dall’agente, consente di calcolare il compenso che gli è dovuto – è in linea con l’orientamento di legittimità, che attribuisce forza probatoria qualificata a tali estratti (Cassazione, 21919/2015).
Conseguenze
Ma quali sono le conseguenze di una descrizione troppo generica in fattura? Si riassume tale irregolarità nei seguenti effetti:
-
innanzitutto, l’Amministrazione finanziaria è abilitata all’applicazione della sanzione per non conformità del documento al modello legale (articolo 9 del Dlgs 471/1997)
-
viene disconosciuto il costo che il destinatario della fattura porta in detrazione in virtù della rivalsa (articolo 18 del Dpr 633/1972) dal cessionario/committente, con conseguente ripresa a tassazione della detrazione/deduzione operata ai fini Iva e delle imposte sui redditi (articolo 109 del Dpr 917/1986)
-
nei casi più estremi, la fattura può essere considerata relativa a operazioni inesistenti (articolo 21, comma 7, Dpr 633/1972), con eventuale rilevanza penale (articolo 2 del Dlgs 74/2000).
Fonte: Fisco Oggi


ACCERTAMENTO CATASTALE
Accertamento catastale nullo se non motivato
L’avviso di accertamento sulla rendita catastale, se
privo di motivazione adeguata, è illegittimo. Lo ha
affermato la CTR della Lombardia con la sentenza
762/67/2016, pronunciandosi sul ricorso di una società
contro l’Agenzia delle Entrate per avvisi di rettifica di
rendite catastali dichiarate con mod. DOCFA,
riguardanti impianti di produzione di energia elettrica (invasi, dighe, manufatti, fabbricati di servizio).
Il fatto
L’ Enel Produzione s.p.a. ricorreva nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Brescia, avverso avvisi di rettifica di rendite catastali dichiarate con mod. DOCFA; le rettifiche riguardavano altrettanti impianti di produzione dell’energia elettrica (invasi, dighe, manufatti, fabbricati di servizio).
La Ricorrente deduceva:
-
carenza assoluta di motivazione degli atti rettificativi;
-
carenza di prova, in violazione dell’art. 2697 cc.;
-
illegittima inclusione delle opere idrauliche fra i beni suscettibili di attribuzione di una rendita catastale;
-
infondatezza, nel merito, delle rendite catastali come determinate dall’Ufficio; a sostegno di quest’ultima deduzione produceva perizia di stima quantificante i valori degli immobili oggetto di rettifica di rendita.
La CTP di Brescia, con sent. n. 40/05/13 respingeva i ricorsi sul presupposto che:
«Quanto all’assenza di motivazione è ormai pacifico che sia sufficiente l’indicazione dei dati oggettivi utilizzati dall’Ufficio per giungere alla determinazione dell’accertato per assolvere al dovere di motivazione, inoltre, dal tenore e dallo sviluppo della difese della ricorrente, si può facilmente ritenere che l’obbligo sia stato abbondantemente rispettato.»
La società ricorreva quindi in appello, evidenziando come, contrariamente a quanto statuito dalla sentenza appellata, la motivazione degli atti impugnati debba ritenersi del tutto omessa, posto che la stessa si sostanzia nella seguente, testuale, affermazione:
«Gentile contribuente quest’ufficio ha accertato il reddito degli immobili descritti nel prospetto che risultano a Lei intestati. […] Segue, poi, un prospetto nel quale l’Ufficio applica, ai dati di superficie delle singole opere costituenti la centrale oggetto di accertamento di una serie di valori indicati in maniera del tutto apodittica in assenza di una seppur minima motivazione e prova».
La CTR accoglieva il ricorso, rilevando che i passi della “motivazione” degli atti impugnati, correttamente riportati dall’Appellante, escludono che gli stessi fossero dotati “di” motivazione, cioè di quel minimo “apparato narrativo” con cui l’Agenzia doveva descrivere l’iter logico attraverso il quale era giunta ad accertare le maggiori rendite; il tutto in modo tale da consentire alla Ricorrente di svolgere, eventualmente, le proprie doglianze onde evidenziare gli errori di fatto e di diritto in cui fosse incorsa l’Agenzia; il Giudice a quo ha pertanto errato quando ha “presupposto” la presenza di “dati oggettivi utilizzati dall’Ufficio”, invero assolutamente inesistenti in motivazione, concretizzandosi la stessa nei soli passi riportati in narrativa.
Il Giudice a quo ha anche errato quando, esplicitando la convinzione che “se la Ricorrente si è difesa vuol dire che l’atto era motivato“, ha qualificato lo stesso come “provocatio ad opponendum“; infatti, come ribadito dalla Cassazione, l’obbligo di motivazione dell’atto impositivo persegue il fine di porre il contribuente in condizione di conoscere la pretesa così da consentirgli di valutare l’impugnazione giudiziale e, in caso positivo, di contestare efficacemente l’an e il quantum deleatur. Tali elementi conoscitivi devono essere forniti all’interessato, non solo tempestivamente (inserendoli ab origine nel provvedimento impositivo), ma anche con quel grado di determinatezza e intelligibilità che permetta un esercizio non difficoltoso del diritto di difesa.
fonte: iltuotributrista.it
STUDI DI SETTORE. Regime premiale: quali benefici?
Il regime premiale è stato introdotto dall’art. 10, commi 9 e 10,
D.L. n. 201/2011, ed è applicabile ai contribuenti
che risultano congrui (anche per effetto di adeguamento) e
coerenti agli studi di settore. I benefici che possono usufruire i
contribuenti che optano per il regime premiale consistono:
- nella preclusione degli accertamenti analitico-induttivi;
- nella riduzione di un anno dei termini di decadenza per l’attività di accertamento e una
franchigia più elevata di quella ordinaria nel caso di accertamenti da redditometro.
I presupposti per accedere al regime premiale sono due: .......

Studio più recente retroattivo
di Eleonora Pergolari
E’ illegittima la rettifica dei redditi operata dal Fisco sulla
base dei parametri vigenti all’epoca dell’accertamento, se
il contribuente dimostri la congruità dei ricavi dallo stesso
dichiarati rispetto agli studi di settore successivamente
introdotti per la relativa categoria professionale.
Prova contribuente con ogni mezzo
La Corte di cassazione ha accolto, con rinvio, il ricorso presentato da unavvocato avverso la decisione con cui i giudici di secondo grado, in riforma della sentenza emessa dalla Commissione tributaria provinciale, avevano confermato un accertamento fiscale a seguito del quale erano stati rideterminati i redditi di lavoro autonomo dal medesimo dichiarati per l’anno 1998, in applicazione dei parametri introdotti dall’articolo 3, commi 181 e seguenti della Legge n. 545/1995.
In primo grado, la Ctp aveva accolto il ricorso del contribuente in considerazione della natura presuntiva dell’accertamento parametrico e della prova contrariaofferta dal medesimo mediante la produzione dello studio di settore relativo al 2001 sulla base del quale lo stesso risultava congruo.
I giudici regionali, tuttavia, avevano successivamente ritenuto che l’avvocato avesse sì contestato gli indici applicati, ma non avesse fornito alcuna dimostrazione in ordine alla circostanza che il reddito presunto sulla base dei parametri non esisteva o esisteva in misura inferiore. Inoltre, avevano sottolineato che non poteva avere valore lo studio di settore elaborato riguardo alla medesima categoria professionale per l’anno 2001.
Diversamente opinando, la Suprema corte ha accolto le doglianze avanzate dal legale ricorrente a titolo di violazione e falsa applicazione di legge.
Nel dettaglio, questi aveva rilevato che i documenti contabili da lui prodotti non facevano che testimoniare la sua reale capacità reddituale e che, in ordine alla facoltà dei contribuenti di provare con ogni mezzo l’effettiva situazione reddituale, operasse la prova precauzionale dallo stesso offerta, consistente nelle risultanze dello studio di settore relativo agli studi legali.
Studi più recenti maggiormente affidabili
Confermando detto assunto, i giudici di legittimità – sentenza n. 8812 del 4 maggio 2016 - hanno ribadito il consolidato indirizzo giurisprudenziale in materia e secondo il quale l’accertamento standardizzato mediante l’applicazione dei parametri e degli studi di settore costituisce un sistema unitario, frutto di un progressivo affinamento degli strumenti di rilevazione della normale redditività per categorie omogenee di contribuenti, tale da giustificare l’applicazione retroattiva dello strumento più recente, in quanto ritenuto più raffinato e più affidabile.
Nella specie, in definitiva, era da annullare la rettifica reddituale operata dall’amministrazione finanziaria in considerazione dei parametri vigenti all’epoca dell’accertamento nonostante fosse emersa la congruità dei ricavi dichiarati dal ricorrente rispetto agli studi di settore che erano stati successivamente elaborati per gli avvocati.

ACCERTAMENTO NULLO CON SOTTOSCRIZIONE SENZA LA DELEGA.
La Commissione Tributaria Provinciale di Agrigento, con
la sentenza del 21 aprile 2016 n. 1746/07/16 ha
confermato il proprio orientamento annullando un
avviso di accertamento sottoscritto da un funzionario
non legittimato dalla produzione in giudizio della delega alla sottoscrizione da parte del capo dell'Ufficio.
I fatti.
Alla contribuente, in relazione ad una verifica redditometrica, veniva richiesta la documentazione
giustificatrice delle spese sostenute nell'anno 2009.
Dopo varie vicissitudini, visto solo il parziale accoglimento delle giustificazione poste in essere nella fase amministrativa, la contribuente, tramite l'odierno scrivente, proponeva ricorso avverso l'atto di accertamento, davanti la Commissione Tributaria Provinciale di Agrigento.
Tra le altre eccezioni la ricorrente pregiudizialmente chiedeva l'annullamento dell'atto impositivo, perchè lo riteneva viziato nella firma, in relazione alla carenza di potere del funzionario sottoscrittore.
La Commissione, visti gli atti, ribadiva due principi fondamentali:
- il primo consiste nel fatto che se il ricorrente contesta il vizio di sottoscrizione dell'atto è onere dell'Agenzia delle Entrate provare l'esistenza della delega che conferisce il potere di firma a norma dell'art. 42 del DPR. n. 600 del 1973.
- il secondo consiste nel fatto che l'avviso di accertamento, ai sensi proprio dell'art. 42 del DPR n. 600 del 1973, deve essere sottoscritto dal Capo dell'Ufficio o da altro impiegato alla carriera direttiva da lui delegato e la delega non potrà mai essere sostituita da una disposizione di servizio, che ha valenza ed efficacia solo all'interno dell'Ufficio.

Gli agenti e i rappresentanti di commercio, senza un'autonoma organizzazione sono esonerati dall'IRAP e hanno diritto al rimborso di quella già pagata nei 48 mesi precedenti. Lo ha deciso la Commisione Tributaria Provinciale di Agrigento, conformandosi alla Giurisprudenza di legittimità.
LA DEDUCIBILITA' E L'INERENZA DEI COSTI.
Spesso l'Agenzia delle Entrate non riconosce
l'inerenza dei costi sostenuti dalle aziende e ne
contesta la deducibilità, perchè i detti costi tavolta
non sono sorretti da un CONTRATTO tra le parti.
La Suprema Corte di Cassazione (sentenza del
20/04/2016 n. 7881) invece al contrario ha
affermato che <<agli effetti della deducibilità di un
costo (e della detraibilità dell'IVA corrispondentemente assolata) rileva esclusivamente l'effettività del costo stesso e la sua inerenza all'attività o ai beni da cui derivano i ricavi. A nulla rileva, dunque, il riscontro documentale del rapporto contrattuale tra le parti.
Inoltre, Quanto alla prova dell'inerenza medesima, la Corte ritiene che tale onere incomba sull'Agenzia che deve quindi dimostrare la non inerenza e, di conseguenza, la non deducibilità del costo>>.
In altri termini, il costo si dice inerente quando è strettamente correlato all'attività svolta dall'azienda ed è necessario per la produzione dei correlati ricavi. Quanto il costo è documentato da fattura si ritiene sia operante la presunzione di veridicità di quanto in essa rappresentato, con conseguente onere per l'Agenzia di fornire LEI la prova del contrario.